Era il pomeriggio del 15 maggio quando ricevemmo il referto della TAC: giorno da ricordare, dal momento che, un paio d'ore dopo, arrivò per telefono la notizia altrettanto dolorosa della morte della zia suora di mamma, Madre Aurora.
I giorni successivi furono di grande difficoltà psicologica; da un lato cercavamo di non dare segni di preoccupazione evidenti, dall'altro era febbrile la ricerca di una possibile strada per affrontare il male. Papà non voleva che gli si parlasse del suo male (forse perché ne aveva già intuito la gravità e preferiva proteggerci facendoci credere di non sapere niente): infatti mostrava disinteresse per i vari referti delle molteplici analisi cui si era sottoposto. Dovevamo decidere noi e, di fronte ai tempi lunghi che si prospettavano per Milano e per reazione al tira e molla cui ci sottoponeva il Gemelli di Roma, optammo per Napoli. Certo le parole fredde e disumane del neurochirurgo (le abbiamo ascoltate, increduli, io e mio cugino Mimì) mi sono rimaste dentro e, incosciamente, forse, hanno orientato la nostra decisione. Venendo via da Napoli sapevamo di aver scelto la strada dell'accompagnamento, il meno invasivo possibile, verso la morte ed iniziammo a prepararci ad un lungo periodo di malattia terminale (almeno così credevamo).
Nel periodo seguente eravamo spesso stanchi (papà aveva bisogno di molte cure ed attenzioni), ma rassicurati da condizioni complessive difficili ma non estreme (era quasi autosufficiente nei movimenti, lucido, pieno di voglia di vivere, di scherzare, di passeggiare come quando stava bene, di mangiare). L'8 agosto avevamo festeggiato il suo onomastico e tutti i nipoti presenti e i cognati lo avevano trovato sereno, felice, in buone condizioni.
La mazzata del 9, inattesa, ci fece piombare nella disperazione; avevamo voglia di parlargli ancora, di dirgli tante cose, di stringergli la mano, di abbracciarlo; e lui sembrava vegetare, dando motivo alle nostre calde lacrime. Insieme con i parenti e gli amici (non sarò mai capace di ringraziare abbastanza tutti quelli che, direttamente o indirettamente ci hanno sostenuto in questa prova) vivemmo le emozioni indescrivibili che, quotidianamente, ci furono riservate dalla progressiva uscita dal coma. Ritornammo a respirare e a sperare; pregavamo perché papà soffrisse il meno possibile e, nello stesso tempo, desideravamo averlo ancora con noi.
Le ultime settimane trascorse a casa furono caratterizzate dalle crescenti difficoltà fisiche di papà: e tuttavia mai una volta che si sia lamentato. Soggetto sicuramente a dolori indicibili, trovava sempre la forza per giocare, comunicare, vivere per quanto possibile una vita ordinaria (se tale la si poteva considerare, chiusa tra le 4 pareti di una stanza nel continuo peregrinare tra poltrona, sedia e letto), anche se i suoi occhi tradivano a volte il suo essersi rassegnato al male assassino. Eppure i malati sembravamo noi e lui lì pronto a tirarci su, a farci fare un sorriso, a distrarre i nostri pensieri.
Il 4 settembre, dopo una accurata visita, il nipote medico ci aveva dato qualche ulteriore speranza: "la situazione è stazionaria - aveva detto -. proviamo a fargli fare un po' di fisioterapia". Ma papà aveva sofferto abbastanza e, nel giro di poche ore, bevve le ultime gocce del calice che gli era stato affidato.
Ora sentiamo un gran vuoto dentro, come piante cui siano state recise radici primarie, come edifici cui mancano pilastri importanti, come neonati senza il caldo latte della mamma.